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  • TURISMO: L’INDUSTRIA PIÙ PESANTE (E PARADOSSALE) DEL NOSTRO TEMPO

    TURISMO: L’INDUSTRIA PIÙ PESANTE (E PARADOSSALE) DEL NOSTRO TEMPO

    TURISMO: L’INDUSTRIA PIÙ PESANTE (E PARADOSSALE) DEL NOSTRO TEMPO.

     Viviamo (e chissà se ce ne siamo davvero accorti) nell’età del turismo.

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     È la più importante industria del nostro tempo, ed è la più inquinante: produce CO2 e consuma territorio. Alimenta un indotto gigantesco: c’è la produzione di aerei, navi, treni e auto e pullman, che senza turismo subirebbe una forte flessione. C’è la costruzione di strade e aeroporti. Di alberghi, villaggi e seconde case e campi da golf e piscine. C’è la fabbricazione di arredi e suppellettili e biancheria per alberghi e seconde case.

     E c’è la produzione di souvenir e di skilift, di sci, scarponi e costumi da bagno, di ciabatte e zaini e valigie e cappellini e creme solari… poi, c’è tutta l’editoria dedicata, su carta e in rete. Ci sono Google Maps e Tripadvisor.

    IL 10 PER CENTO DEL PIL MONDIALE.

     Senza calcolare l’incalcolabile indotto, il turismo internazionale vale 1522 miliardi di dollari (Wto – Organizzazione Mondiale del commercio, 2015). Il turismo locale vale molto di più: 7600 miliardi di dollari nel 2014, il 10 per cento del pil mondiale.

    SPAGNA E ITALIA.

     In Spagna, prima meta turistica al mondo, il turismo vale oltre il 15 per cento del pil e dei posti di lavoro. In Italia vale il 10,2 per cento del pil e l’11,6 per cento dell’occupazione (dati 2015). In Costa Rica (link: www.nuovoeutile.it) il turismo arriva a impiegare il 27 per cento della forza lavoro (e, grazie alla tutela del paesaggio, regala un futuro diverso all’intera nazione).

    LA GIOSTRA CHE CI MUOVE.

     Insomma, il turismo è una giostra su cui buona parte della popolazione mondiale è salita (o salirà tra breve), nei ruoli più o meno intercambiabili di viaggiatore o turista, o spettatore, o lavoratore del turismo. È un fenomeno globale, pervasivo e relativamente recente. C’è un’enorme letteratura sui luoghi del turismo, c’è un’ampia produzione di scritti sul marketing e la promozione turistica. Ma i ragionamenti sul turismo in sé, come nuovo stile di vita, sistema e comportamento condiviso, sono scarsi e frammentari.

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    VOLENTEROSE ILLUSIONI.

     Con Il selfie del mondo (Feltrinelli) (link: www.amazon.it), Marco D’Eramo ci aiuta a capire come la giostra funziona, che cosa la muove e che cosa può romperla. Soprattutto, ci dice che la giostra è fatta di specchi, e che si fonda sul paradosso. Per questo, parlando di turismo, Il selfie del mondo ci parla di noi e dei nostri desideri, delle nostre illusioni e (infine) della nostra buona volontà.

    UN NOBILE PIACERE.

     In passato la gente non si muoveva se non era obbligata a farlo. Nel Cinquecento, solo i figli dei nobili viaggiano per piacere e formazione. Nel Settecento, “aver visto il mondo” diventa obbligatorio per un gentiluomo, a cui si consiglia di andare in giro con un blocco da disegno. Nasce così la categoria del “pittoresco”: ciò che salta all’occhio, è esotico ed è facile da dipingere.

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    BRUTTI E TANTI.

     Il turismo si espande a metà Ottocento, con la sbalorditiva diffusione dei mezzi di trasporto, e suscita nei nobili turisti tradizionali enorme fastidio per i “nuovi” e “brutti” e “tanti” turisti borghesi. Questi hanno mete che oggi ci sembrano stravaganti. A Parigi visitano le fogne, le prigioni e (lo racconta Marc Twain) l’obitorio.

    RIVOLUZIONE TURISTICA.

     Ma la rivoluzione turistica mondiale si verifica nel secondo dopoguerra: si passa da 25,3 milioni di viaggiatori internazionali nel 1950 al miliardo 186 milioni del 2015 (dato WTO). Il turismo non solo si globalizza grazie ai voli low cost, ma si specializza irreggimentando pubblici diversi (anziani, congressisti, studenti, fedeli in visita ai luoghii sacri…). E, scrive d’Eramo, si ingarbuglia (ingarbugliando anche noi) in una serie di paradossi disturbanti.

    PRIMO PARADOSSO: IL TURISMO FUGGE DA SE STESSO.

     Ogni meta desiderabile perché “autentica” ed “esclusiva” smette gradualmente di esserlo man mano che si trasforma in meta turistica. E poi, più un luogo “va visto”, meno diventa possibile vederlo, perché… è pieno di turisti.

    SECONDO PARADOSSO: L’AUTENTICA FINZIONE.

     I turisti ricercano l’autenticità, ma la individuano solo se è evidenziata, quindi “messa in scena”, quindi ostentata e inautentica. Questo fatto porta al terzo paradosso.

    TERZO PARADOSSO: LA TRADIZIONE INVENTATA.

     Per esempio, il Palio di Siena viene medievalizzato nel 1904. E i mercati “tipici” come il Mercado de San Miguel a Madrid finiscono per vendere solo ciò che i turisti si aspettano di poter comprare.

    QUARTO PARADOSSO: L’ENTROPIA TURISTICA.

     il turismo alimenta l’economia delle città e dei territori, ma la omogeneizza distruggendo le basi economiche su cui si fonda l’identità di quelle città e di quei territori. Nel Chiantishire i casolari diventano ville, nel centro delle città le botteghe diventano negozi di souvenir. I piccoli centri come San Gimignano si trasformano in un parco a tema.

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    QUINTO PARADOSSO: IL TOCCO LETALE.

     Il tocco dell’Unesco è – scrive D’Eramo — letale. Preservando le pietre e gli edifici, l’etichetta di Patrimonio dell’Umanità, anche se attribuita in perfetta buona fede, museifica i luoghi, li sterilizza, costringe gli abitanti all’esodo svuotando i centri urbani.

    SESTO PARADOSSO: IL FALSO È VERITÀ.

     L’inautentico turistico è un autentico (e dunque rimarchevole) segno del nostro tempo. Basti pensare al caso di Lijang, città turistica cinese interamente ricostruita, (oltre 20 milioni di turisti nel 2013). O al caso di Las Vegas. Due insediamenti che raccontano una verità proprio nel loro essere fenomeni del tutto artificiali

    SETTIMO PARADOSSO: FARE IL TURISTA È UN LAVORO DURO.

     Le persone si assumono volontariamente il compito di eseguirlo mentre sono in ferie, cercando di sfruttare con la massima efficacia il poco tempo disponibile. Un dettaglio rivelatore: quelli che dicono “ho fatto il Brasile, l’anno prossimo farò l’Asia centrale”. Che fatica…

    OTTAVO PARADOSSO: “LOCALE” È DAPPERTUTTO.

     Parliamo di gastronomia. Si moltiplicano le sagre enogastronomiche: in Italia sono oltre 34.000, più di quattro a comune. Abbiamo 1515 sagre della polenta e 1040 sagre della salsiccia, 5790 sagre del tartufo, 156 sagre della lumaca e 171 della rana… e si moltiplicano anche i ristoranti etnici, perché i turisti amano gustare di nuovo i sapori incontrati in vacanza. Ma la “cucina etnica” è come la “musica etnica”: ingredienti tradizionali riarrangiati per un pubblico globale.

    NONO PARADOSSO: NESSUN TURISTA VUOLE SENTIRSI TALE.

     Preferisce considerare se stesso un “viaggiatore”, e riversare il proprio disprezzo su qualcun altro che si comporta più “da turista”. La catena del disprezzo classista è forte: lo svago delle masse, che è recentissimo, ha ricevuto dagli intellettuali più critiche in dieci anni di quante il tempo libero degli aristocratici ne abbia ricevute in duemila anni.

    UN VIAGGIO TRA FENOMENI.

     Il testo di Marco D’Eramo è a sua volta un viaggio. Cioè un percorso tra fenomeni, luoghi, idee, dati, idiosincrasie, intuizioni e contraddizioni, e mille storie sorprendenti. Ma, proprio come capita nei viaggi materiali, anche procedendo di pagina in pagina l’autore entra in contatto con prospettive inaspettate e ne esce cambiato. E con lui noi, che l’abbiamo seguito leggendo.

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    C’È DEL BUONO, TUTTAVIA.

     La chiave del cambiamento di prospettiva sta in una serie di domande semplicissime: …e se il turismo fosse animato dal movente positivo dell’essere curiosi del mondo? E se non si trattasse d’altro che di una pratica di automiglioramento (self improvement) corporeo, emotivo e intellettuale? Del resto, in quale altra occupazione che la renda più felice potrebbe una sterminata massa di esseri umani investire il suo tempo libero? C’è qualcosa di commovente, scrive D’Eramo, nella fiducia che andare a visitare una città, un monumento, un paese possa aprirti la mente, renderti migliore.

    NOSTALGIA, FORSE.

     Eppure, la bistrattata figura del turista forse non durerà per sempre. Potremmo perfino cominciare a coltivare, nei suoi confronti, una specie di nostalgia. Il cambiamento del lavoro, che diventa sempre meno stabile, può cambiare l’idea stessa di “vacanza”. E lo sguardo turistico che cerca il nuovo, l’autentico e l’inaspettato, forse si appannerà dopo aver già visto in rete tutto ciò che merita di essere visto.

    Scritto da Annamaria Testa per il suo sito web Nuovo e Utile, teorie e pratiche della creativitá
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  • DESERTIFICAZIONE: 30 CENTIMETRI CHE CAMBIANO TUTTO

    DESERTIFICAZIONE: 30 CENTIMETRI CHE CAMBIANO TUTTO

    DESERTIFICAZIONE: 30 CENTIMETRI CHE CAMBIANO TUTTO.

     La desertificazione fa perdere ad amplissime porzioni di territorio il loro valore economico, estetico, socioculturale e religioso.

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     Anna Luise ha gli occhi azzurri dietro gli occhiali con un tocco di azzurro e lo sguardo franco. È napoletana e, nonostante viva a Roma, quando si accalora il suo accento rotondo viene fuori. È un’esperta di desertificazione e lavora per I’ISPRA (link:www.isprambiente.gov.it).

     Ce l’ho di fronte, la sto intervistando e, facendolo, scopro molte cose che non sapevo.

    Di che cosa si occupa esattamente?

     Mi occupo di lotta alla desertificazione. Che non riguarda, come molti credono, i deserti, ma i territori fertili che perdono la loro produttività biologica e diventano inadeguati a sostenere la vita e a far crescere prodotti agricoli.

    Quali sono le conseguenze?

     La desertificazione fa perdere ad amplissime porzioni di territorio il loro valore economico, estetico, socioculturale e religioso.

    Un territorio può avere un valore religioso?

     Il caso tipico è quello dell’Ayers Rock (link:www.onuitalia.com) in Australia. Ma anche nelle religioni animiste africane molti territori vengono considerati aree sacre e la loro distruzione ha ricadute drammatiche sulle comunità perché ne scardina i valori. Da noi, molti territori hanno grande rilievo non religioso ma socioculturale: se vengono distrutti, l’impatto può risultare ugualmente grave.

    A che cosa serve studiare la desertificazione?

     Dobbiamo capire come conservare l’equilibrio degli ecosistemi. Se questo viene pregiudicato, la qualità della vita di tutti noi peggiora. La desertificazione è provocata da due categorie di fenomeni: gestione non sostenibile del suolo e cambiamenti climatici. Lottare contro la desertificazione vuol dire promuovere pratiche agricole sostenibili, che impediscano per esempio al suolo di compattarsi o di avere tassi di salinità troppo alti e aiutino a tenere sotto controllo l’erosione eolica e idrica: la forza del vento e dell’acqua che dilava lo strato superiore fertile del terreno.

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    Cioè, è tutto un problema di suolo troppo duro?

     O troppo duro, o troppo fragile e non coeso. Il suolo reso fertile dai microorganismi è profondo in media trenta centimetri. Se diventa duro come il cemento o se, al contrario, si sgretola e diventa polvere, quando piove, ammesso che piova, non riesce a bagnarsi a sufficienza perché l’acqua, non trattenuta, se ne scivola via. Così il suolo smette di essere produttivo.

    Quindi la sopravvivenza alimentare del genere umano è legata a una buccia di terra della giusta consistenza e profonda trenta centimetri?

     La profondità può variare, ma la media è questa. È abbastanza impressionante. Il suolo è stato definito “la pelle della nostra terra”: è il luogo dove si verificano gli scambi biochimici che permettono alle colture di crescere.

    Quando si è cominciato a parlare di desertificazione, e quando a cercare di contrastarla?

     La desertificazione è un fenomeno lento e non sappiamo bene quando è cominciata. Se ne è parlato per la prima volta nel corso della conferenza di Stoccolma del 1972, che ha lanciato l’idea di sviluppo sostenibile, cioè di equilibrio tra società, economia e ambiente. La prima decisione politicamente importante è stata presa nel 1992 a Rio de Janeiro, con una Convenzione delle Nazioni Unite (UNCCD) (link:www.unccd.int) entrata in vigore nel 1996, fortemente volute dai paesi africani soprattutto dell’area maghrebina e subsahariana per cui la desertificazione è una diretta minaccia alla sopravvivenza. L’Italia ha aderito nel 1997. Oggi aderiscono 198 paesi.

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    Quanto pesa globalmente il rischio di desertificazione?

     Diciamo che nel mondo il suolo fertile è il 75% delle terre emerse. Di questo 75%, almeno il 40% è variamente degradato, anche perché inquinato o contaminato, e si trova in gran parte nelle zone aride o semiaride: non stiamo, lo ripeto, parlando di deserti, ma di zone in cui l’acqua c’è ma è scarsa.

     La desertificazione è definita come il livello estremo del degrado del suolo, ed è, insieme al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità, uno dei tre grandi fattori di rischio di rottura dell’equilibrio ecosistemico. E quando si rompe un equilibrio così complesso, mica lo sappiamo quali possono essere le conseguenze: le variabili sono talmente tante che, come si dice in fisica, il sistema diventa caotico e del tutto incontrollabile.

    Qui in Italia abbiamo rischi seri di desertificazione, o possiamo preoccuparci solo del cambiamento climatico?

     Il cambiamento climatico va a esacerbare la desertificazione perché fa crescere le temperature e altera il regime delle acque: teniamo a mente che il Mediterraneo è considerato un “hot spot”, cioè un punto di  particolare intensità dei cambiamenti climatici.
    Circa il 20% del nostro territorio nazionale è già stato riconosciuto come interessato da fenomeni di desertificazione tra il 1961 e il 2000, e un altro 20% è a rischio di desertificazione nel giro dei prossimi venti o trent’anni. Nelle nostre regioni meridionali, ma anche in aree dell’Emilia Romagna, delle Marche o del Molise, i segni di desertificazione sono già visivamente evidenti. E non dimentichiamo che nel suolo “sano” è conservato il carbonio organico.

    …cioè?

     Il suolo contiene il doppio del carbonio che troviamo nell’atmosfera, il triplo di quello che troviamo nei vegetali. Il carbonio viene assorbito dall’atmosfera, il cosiddetto SOC (Soil Organic Carbon)  (link:www.eol.org) potrebbe mitigare i cambiamenti climatici dovuti all’eccesso di emissioni di anidride carbonica sequestrandola. Ma questo avviene, appunto, se il suolo è “sano”, e non eccessivamente sfruttato dall’agricoltura intensiva.

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    Come se ne esce?

     Se ne esce facendo ricerca, sperimentazione ed educazione ambientale. Attivando politiche locali, regionali e nazionali: vuol dire, per esempio, razionalizzare l’uso delle risorse idriche, oppure riforestare. Oggi stiamo andando nella direzione dell’agroecologia: un’agricoltura che esercita meno pressione sul suolo impiegando meno fertilizzanti e passando, per esempio, da cinque a due raccolti consecutivi di grano. Tra l’altro, qui in Italia avremmo mille buoni motivi per passare da un’agricoltura di quantità a un’agricoltura di qualità.

    Che cosa può fare un singolo cittadino che si preoccupa per la desertificazione?

     Non dimentichiamo che i singoli individui indirizzano il mercato, per esempio comprando prodotti di stagione e prodotti locali: non pretendere di mangiare i peperoni a Natale è già qualcosa, perché evita che porzioni di territorio vengano coperte da serre, in cui si usano troppi fertilizzanti e il terreno viene super sfruttato e danneggiato. E poi non bisogna stancarsi di fare opera di divulgazione e sensibilizzazione: è quello che stiamo facendo proprio adesso.

    Scritto da Annamaria Testa per il suo sito web Nuovo e Utile, teorie e pratiche della creativitá
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