Categoria: RURALITUDINE

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  • 2018 anno del cibo italiano

    2018 anno del cibo italiano

    2018 anno del cibo italiano.

     è una news di Mipaaf – politicheagricole.it e Mibact – beniculturali.it

    Il 2018 Anno del Cibo Italiano valorizzerà e promuoverà l’intreccio tra cibo arte e paesaggio, che rappresentano i migliori attrattori culturali del nostro Paese.

    Un calice di vino nella mano di Bacco, piatti abbondanti di cacciagione, pesci e crostacei per un banchetto luculliano, ceste ricolme di grappoli d’uva, pani, mele e melograni, cascate di ciliegie di tutti i pantoni di rosso. È l’arte a riconoscere per prima la valenza culturale del cibo, il suo valore simbolico, sociale ed estetico, oltre che vitale, dall’epoca greco-romana fino all’avvento del barocco e al contemporaneo. Così il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, insieme al Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, inaugura il 2018 Anno del Cibo Italiano con una campagna social tutta incentrata su alimenti e piatti d’autore, quelli realizzati con tempera e chiaro scuro, in marmo o su ceramica, belli da concepirne profumo e gusto.

    L’account Instagram @museitaliani posta e condivide circa 50 locandine digitali, tra le quali figurano la stele di Karo al Museo Egizio di Torino, la Cena con sponsali di Gherardo delle Notti, la Natura morta con peperoni e uva di Giorgio De Chirico, così come le sculture di Darren Bader al Museo Madre di Napoli e i manifesti pubblicitari conservati al Museo Salce di Treviso. Non potevano poi mancare l’Ultima Cena di Leonardo, gli affreschi di Pompei, le nature morte della Villa Medicea di Poggio a Caiano e i dipinti della Scuola Napoletana.

    Le regole della campagna social non cambiano: continua l’invito a visitare gli oltre 420 musei, parchi archeologici e luoghi della cultura italiani, a cercare, fotografare e condividere il tema del mese con l’hashtag #annodelciboitaliano.

    Annunciato dai Ministri Franceschini e Martina lo scorso giugno, il 2018 Anno del Cibo Italiano valorizzerà e promuoverà l’intreccio tra cibo arte e paesaggio, che rappresentano i migliori attrattori culturali del nostro Paese. La condivisione delle foto diventerà un reportage collettivo che, attraverso il cibo, racconterà anche la storia della nostra società, l’evoluzione del gusto, evidenziando quanto il patrimonio enogastronomico faccia parte dell’identità italiana.

    Tutte le locandine dedicate all’#annodelciboitaliano sono disponibili su: www.beniculturali.it/annodelciboitaliano

    fonte: mibact ministero dei beni e delle attivitá culturali e del turismo-min

    logo #annodelciboitaliano: anno del cibo italiano the year of italian food-min

    Lo stretto legame tra cibo, arte e paesaggio sarà inoltre il cuore della strategia di promozione turistica che verrà portata avanti durante tutto il 2018. Saranno attivate iniziative per far conoscere e promuovere, anche in termini turistici, i paesaggi rurali storici, per il coinvolgimento e la promozione delle filiere e ci sarà un focus specifico per la lotta agli sprechi alimentari.

    I Ministeri delle politiche agricole alimentari e forestali e dei beni culturali e del turismo comunicano che i ministri Dario Franceschini e Maurizio Martina hanno proclamato il 2018 Anno nazionale del cibo italiano. Da gennaio prenderanno il via manifestazioni, iniziative, eventi legati alla cultura e alla tradizione enogastronomica dell’Italia.

    Tutte le iniziative dell’Anno del cibo italiano saranno connotate dal logo ufficiale.

    Si punterà sulla valorizzazione dei riconoscimenti Unesco legati al cibo come la Dieta Mediterranea, la vite ad alberello di Pantelleria, i paesaggi della Langhe Roero e Monferrato, Parma città creativa della gastronomia e all’Arte del pizzaiuolo napoletano iscritta di recente. Sarà l’occasione per il sostegno alla candidatura già avviata per il Prosecco e la nuova legata all’Amatriciana.

    Allo stesso tempo saranno attivate iniziative per far conoscere e promuovere, anche in termini turistici, i paesaggi rurali storici, per il coinvolgimento e la promozione delle filiere e ci sarà un focus specifico per la lotta agli sprechi alimentari. Lo stretto legame tra cibo, arte e paesaggio sarà inoltre il cuore della strategia di promozione turistica che verrà portata avanti durante tutto il 2018 attraverso l’Enit e la rete delle ambasciate italiane nel mondo e permetterà di evidenziare come il patrimonio enogastronomico faccia parte del patrimonio culturale e dell’identità italiana.

    “Abbiamo un patrimonio unico al mondo – ha dichiarato il Ministro Maurizio Martina – che grazie all’anno del cibo potremo valorizzare ancora di più. Dopo la grande esperienza di Expo Milano, l’esperienza agroalimentare nazionale torna ad essere protagonista in maniera diffusa in tutti i territori. Non si tratta di sottolineare solo i successi economici di questo settore che nel 2017 tocca il record di export a 40 miliardi di euro, ma di ribadire il legame profondo tra cibo, paesaggio, identità, cultura. Lo faremo dando avvio al nuovo progetto dei distretti del cibo. Lo faremo coinvolgendo i protagonisti a partire da agricoltori, allevatori, pescatori, cuochi. E credo che in quest’ottica sia giusto dedicare l’anno del cibo ad una figura come Gualtiero Marchesi, che ha incarnato davvero questi valori facendoli conoscere a livello internazionale”.

    “Dopo il successo del 2016 Anno nazionale dei cammini e del 2017 Anno nazionale dei borghi, il 2018 sarà l’Anno del cibo italiano. Un’occasione importante per valorizzare e mettere a sistema le tante e straordinarie eccellenze e fare un grande investimento per l’immagine del nostro Paese nel mondo. Grazie alla collaborazione dei Ministeri della Cultura e dell’Agricoltura, l’Italia potrà promuoversi anche all’estero in maniera integrata e intelligente valorizzando l’intreccio tra cibo, arte e paesaggio che è sicuramente uno degli elementi distintivi dell’identità italiana”. Così il ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini annunciando l’avvio dal primo gennaio 2018 di una campagna di comunicazione social dei musei statali che pone l’attenzione sul rapporto, nei secoli, tra arti e enogastronomia, sottolineandone il ruolo fondamentale nella costruzione del patrimonio culturale italiano.

    Tutte le locandine dedicate all’#annodelciboitaliano sono disponibili su: www.beniculturali.it/annodelciboitaliano

    fonte: mipaaf ministero delle politiche agricole alimentari e forestali-min

    logo #annodelciboitaliano: anno del cibo italiano the year of italian food-min

  • Perchè dobbiamo aspettare il Black-Friday?

    Perchè dobbiamo aspettare il Black-Friday?

    Perchè dobbiamo aspettare il Black-Friday?

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  • Vino novello, macerazione carbonica e beaujolais nouveau

    Vino novello, macerazione carbonica e beaujolais nouveau

    Vino novello, macerazione carbonica e beaujolais nouveau.

      è una news di La Fillosseralafillossera.com

    La tradizione del vino novello si è diffusa anche in Italia, ma sono molte le differenze con il cugino francese beaujolais nouveau.

    Il Beaujolais nouveau o primeur è il vino novello prodotto nella regione francese del Beaujolais che è un’area AOC, ovvero appellation d’origine contrôlée, analoga all’italiana DOC, nei pressi di Lione.

    Wine, carbonic maceration and beaujolais nouveau - vino novello macerazione carbonica - 1-min

    Il vitigno dal quale si ottiene il novello è il Gamay. La tecnica utilizzata per la produzione del novello è la macerazione carbonica.

    In cosa consiste questa tecnica? La macerazione carbonica consiste nel porre i grappoli di uva interi in contenitori di acciaio previamente saturati con anidride carbonica. In assenza di ossigeno gli acini modificano il loro metabolismo iniziando una fermentazione intracellulare (i lieviti presenti sulle bucce, infatti, sono organismi aerobici e per “nutrirsi” di ossigeno penetrano all’interno degli acini). Le bucce cedono alla polpa i propri pigmenti colorati, aumenta la glicerina insieme alla demolizione dell’acido malico e si formano dei composti volatili.

    La macerazione può variare da 5 a 20 giorni circa a una temperatura intorno ai 25°/30°. Successivamente l’uva viene pigiata e il mosto avviato alla normale fermentazione alcolica.

    Wine, carbonic maceration and beaujolais nouveau - vino novello macerazione carbonica - 1-min

    Quali sono le caratteristiche del vino ottenuto con la macerazione carbonica?

    Con questa tecnica si ottiene un vino morbido, con uno scarso contenuto di tannini, nel quale predominano i sentori legati agli aromi primari e un titolo alcolometrico che non supera l’11%.

    Dal punto di vista organolettico il vino novello ha un colore rosso brillante con riflessi violacei, un bouquet aromatico caratterizzato da un fruttato fresco e vivace, di facile beva e poco persistente. Può essere servito fresco e in parte trattato come fosse un vino bianco. Per le sue caratteristiche va consumato in breve tempo, al massimo entro sei mesi dalla messa in bottiglia.

    Il vino novello, in Francia, può essere commercializzato a partire dal 6 novembre e imbottigliato entro il 31 dicembre dell’ anno della vendemmia.

    E in Italia? La tradizione del vino novello si è diffusa anche in Italia, ma sono molte le differenze con il cugino francese. In Italia, infatti, può essere utilizzato qualsiasi vitigno e la macerazione carbonica può riguardare anche soltanto il 40% delle uve. Inoltre dal 2012 il novello può essere immesso sul mercato già dalle 00.01 del 30 ottobre. Il titolo alcolometrico totale minimo al consumo non può essere inferiore a 11% vol. e il limite massimo di zuccheri riduttori residui non deve essere superiore a 10 g/l.

    In linea generale il vino novello italiano è una trovata marketing più che un prodotto della nostra tradizione e non va confuso con il vino nuovo perché, come spiegato, prevede una tecnica di produzione differente.

    Wine, carbonic maceration and beaujolais nouveau - vino novello macerazione carbonica - 1-min

    Lo si accompagna con le castagne per un abbinamento stagionale, ma può accompagnare anche salumi e formaggi non troppo stagionati e aromatici.

     + info su La Fillossera

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  • Aridocoltura e territorio. Uno spunto per la gestione responsabile dell’acqua

    Aridocoltura e territorio. Uno spunto per la gestione responsabile dell’acqua

    Aridocoltura e territorio. Uno spunto per la gestione responsabile dell’acqua.

      è un articolo di Erganeergane.org

    La gestione dell’acqua in agricoltura è una grande sfida per la società moderna.

    Sin dall’antichità la fertilità del suolo e la presenza di acqua hanno permesso lo sviluppo delle civiltà umane. Un suolo ricco portava nutrimento a persone e animali. In tempi antichi si poneva molta attenzione alla gestione delle acque irrigue: pensiamo alle opere di canalizzazione del Nilo e della mezzaluna fertile.

    Attualmente le necessità imposte dal mercato inducono piccoli e grandi coltivatori a sfruttare l’acqua in maniera sempre più scellerata. Si stima che In Italia oltre il 50% dei prelievi di acqua sia destinato ad usi irrigui. La nostra produttività agricola per ettaro in termini di prelievi di acqua è la più bassa fra quelle Europee. Con la Spagna, l’Italia è il Paese che registra il tasso più alto di prelievi sulle risorse idriche disponibili e la maggior parte degli impianti di irrigazione sono a pioggia. Questo significa uno spreco idrico più alto, poiché si comprende come l’irrigazione di superficie, soprattutto se applicata nelle ore più calde della giornata, come spesso accade nelle grandi industrie agricole, produce una veloce evaporazione dell’acqua.

    Agricoltura e industria consumano in gran parte acqua potabile che restituiscono spesso inquinata e sono i settori che pagano le tariffe più basse per uso dell’acqua potabile. Il problema è chiaramente legato all’attuale modello economico-sociale, per cui non esiste stagionalità del prodotto né contesto territoriale, nel senso che la produzione agricola su larga scala, come una vera e propria industria del cibo, non tiene conto di clima, temperature, suolo o altri fattori che potrebbero determinare una specificità della produzione, ma punta essenzialmente alla produzione intensiva di cibo standard, per foraggiare il mercato globale del prodotto indifferenziato.

    L’irrigazione è una pratica indispensabile per l’agricoltura, tuttavia può essere impiegata secondo una precisa programmazione ed equilibrio delle disponibilità d’acqua presenti nel terreno. Esistono numerose strategie per ridurre lo spreco idrico in agricoltura è sufficiente rivolgere lo sguardo al nostro passato e prendere spunto per migliorare le tecniche future.

    Nel nostro territorio(Puglia, Italia), per esempio, da sempre caratterizzato da estati afose e poco piovose e inverni relativamente miti, la produzione agricola in passato era essenzialmente basata su colture a bassa esigenza idrica. Si parla oggi di aridocoltura per riferirsi a quelle strategie messe in atto per decenni dai nostri avi, senza nessun altro strumento se non l’osservazione diretta del contesto e la valutazione empirica delle risorse a disposizione. In Permacultura, il sistema di progettazione di ecosistemi sostenibili e resilienti, “Osserva e interagisci” è il primo principio da rispettare per poter progettare nel rispetto della natura e senza uno spreco energetico. Questo stesso approccio permetteva, in passato, di ottenere raccolti più che soddisfacenti, con un utilizzo pari a zero di tecniche di irrigazione manuali.

    aridocultura e territorio uno spunto per la gestione responsabile dell'acqua - aridoculture and territory a cue for responsible water management 1

    L’aridocoltura predilige, infatti, i cereali, i legumi e altre varietà a ciclo autunno-primaverile. In questo modo si sfruttano le piogge e le temperature più basse, legate a questo periodo dell’anno: il cece nero, la cicerchia, i fagioli bianchi, la canapa sono solo alcune delle coltivazioni tipiche, senza dimenticare l’ulivo e la vite. La produzione di altre colture più bisognose di irrigazione non deve essere ovviamente eliminata dal nostro immaginario, ma si può pensare di ridurre la produzione a livello domestico e non su larga scala e innescare altre strategie di risparmio idrico, interconnesse e allo stesso modo efficaci.

    Come per esempio, l’utilizzo di impianti di irrigazione a goccia in combinazione con la pacciamatura. L’impianto a goccia evita lo spreco idrico perché si basa sul principio di distribuzione dell’acqua vicino alle radici delle piante, nella quantità e con la frequenza più idonea alla fase di sviluppo della coltura. La pacciamatura, invece, consiste nel creare uno strato di 20-30 cm di paglia o altro materiale organico che funge da copertura costante per il terreno coltivato, in questo modo si riduce di molto l’evaporazione dell’acqua di irrigazione e il terreno è protetto dai raggi solari diretti.

    aridocultura e territorio uno spunto per la gestione responsabile dell'acqua - aridoculture and territory a cue for responsible water management 1

    Esiste un’ulteriore strategia, molto simile alla pacciamatura, che si basa sull’utilizzo al posto della paglia di rami e ramaglie, precedentemente sminuzzati e trasformati in cippato. Il metodo detto BRF, che sta per Bois Ramèaux Fragmentès (cippato di ramaglie fresche) è stato ideato in Francia dal professore Gilles Lemieux e prevede la copertura completa del terreno di coltura con uno strato di 20 cm di cippato di rametti con diametro inferiore ai 3 cm. Il cippato favorisce, e se necessario ricrea, l’attività biologica del suolo (funghi, microflora, microrganismi animali), migliora la struttura dei suoli, ma anche il potere di ritenzione idrica. Si basa essenzialmente sulla simbiosi funghi/ lignina, un componente chimico organico presente in tutte le piante. I funghi risultano essere gli unici in grado di biotrasformare la lignina, digerendo i suoi enzimi e producendo così humus stabile. Lignina e funghi hanno proprietà e caratteristiche uniche, che li rendono una coppia determinante per l’origine dei suoli e che tuttavia conosciamo ancora poco.

    La gestione dell’acqua in agricoltura è una grande sfida per la società moderna. La mancanza di responsabilità nella gestione delle risorse idriche in agricoltura è molto più pericolosa di un uso scorretto dell’acqua in ambito domestico. Sperimentare strategie nuove, interconnesse, guardando il proprio contesto territoriale è il punto di partenza verso un modello agricolo veramente sostenibile, che cambia l’orizzonte d’attesa e migliora le condizioni di partenza delle generazioni future.

    + altre notizie da Ergane

  • Il mosto

    Il mosto

    Il mosto.

      è un articolo di La Fillosseralafillossera.com

    Il mosto è il succo che si ottiene dalla pigiatura o pressatura delle uve.

    Sono centinaia le sostanze che si possono trovare all’interno del mosto, di seguito le principali:

    Acqua 70-80%
    Zuccheri 17-23%
    Acidi organici 0.7-1.1%
    Acido tartarico 0.3-0.7%
    Acido malico 0.2-0.6%
    Acido citrico e altri 0.01-0.03%
    Sostanze minerali 0.1-0.2%
    Sostanze azotate 0.05-0.1%
    Sostanze pectiche,polifenoli, antociani,aromi e precursori 0.02-0.03%

    L’acqua rappresenta la base del mosto dove si trovano disperse tutte le altre sostanze. Lo zucchero è l’elemento che determinerà la quantità di alcol etilico nel vino. Naturalmente tanto maggiore sarò il grado zuccherino tanto maggiore sarà la quantità di alcol etilico. Conoscendo la percentuale di zuccheri presenti nel mosto si può calcolare il titolo alcolometrico del vino utilizzando la seguente formula:

    % in peso degli zuccheri nel mosto * 0,6 (fattore di conversione) = % in volume di alcol etilico nel vino

    L’acidità del mosto è riferita principalmente all’acidità fissa che nel vino conferisce quella sensazione piacevole di freschezza. Dall’elenco precedente è possibile osservare la presenza di acidi cosiddetti volatili (acetico) che insieme a quelli fissi costituiscono l’acidità totale.

    I polifenoli, nelle diverse forme, insieme alle tecniche di vinificazione, sono fondamentali per definire la personalità del vino in termini di colore, struttura, tannicità e longevità.

    Le sostanze odorose che si trovano soprattutto nella buccia, quali terpeni, precursori di aromi e composti solforati, imprimono le caratteristiche aromatiche del vino. Durante la fermentazione questi elementi riescono a slegarsi dalle molecole di zucchero riuscendo a liberare il loro corredo aromatico. I principali sono riconducibili ad un gruppo di alcoli, i terpeni, che sono in parte liberi e in parte glicosilati. Questa trasformazione avviene per opera degli enzimi dei lieviti che scindono l’aroma glicosilato in zucchero e aroma volatile che quindi diventa percepibile dall’olfatto.

    Le sostanze pectiche, presenti nel mosto in piccole quantità, nelle diverse forme quali pectine, gomme, mucillaggini e pentosani hanno la peculiarità di dare al vino la morbidezza. Un esempio molto utile per comprendere gli effetti di queste sostanze sul prodotto finale sono i vini ottenuti da uve attaccate dalla muffa nobile che presentano una maggiore concentrazione di sostanze pectiche che rendono i vini particolarmente morbidi.

    I minerali e soprattutto le vitamine sono “il carburante” dei lieviti e permettono a quest’ultimi di svilupparsi e svolgere al meglio i processi fermentativi. La vitamina più importante e la B1 che ha una funzione acceleratrice per la fermentazione alcolica e evita la formazione di sostanze in grado di legarsi all’anidride solforosa. Le sostanze azotate in forma inorganica (es. i sali d’ammonio) favoriscono il lavoro dei lieviti mentre quelle in forma organica possono determinare torbidità nel vino. Gli enzimi presenti nel mosto aumentano la velocità delle reazioni chimiche.

    Oltre a sostanze che favoriscono la fermentazione nel mosto si trovano molte sostanze “indigene” che possono determinare una scorretta fermentazione e quindi prodotti di qualità variabile. Alcune di queste sono la polifenolossidasi e laccasi, che si trovano principalmente nelle uve attaccate da parassiti fungini e che causano l’ossidazione di alcune sostanze con possibili imbrunimenti del mosto e perdita di freschezza aromatica. Anche le proteasi hanno degli effetti negativi perché causano la rottura delle proteine, liberando amminoacidi e peptidi che vengono facilmente assimilati dagli lieviti.

    Correzioni del mosto

    Le correzioni vengono eseguite principalmente per modificare la composizione del mosto che non sempre risulta ottimale. Hanno il principale obiettivo di far variare, a seconda delle esigenze, la concentrazione zuccherina e l’acidità.

    Aumento del grado zuccherino

    Per aumentare la quantità di zucchero nel mosto si posso utilizzare diversi metodi:

    Taglio con mosti più ricchi di zucchero: metodo quasi in disuso.

    Aggiunta di mosto concentrato rettificato: il mosto concentrato viene ottenuto facendo evaporare una certa quantità di acqua, sottovuoto, per evitare la caramellizzazione degli zuccheri e l’alterazione delle caratteristiche organolettiche. Nelle produzioni di qualità si utilizza esclusivamente mosto concentrato rettificato (MCR) che subisce, rispetto a quanto detto precedentemente, una successiva rettificazione ottenendo una soluzione di acqua e zucchero d’ uva con dei profili sensoriali che rimangono inalterati.

    Aggiunta di zucchero: l’aggiunta di zucchero non è consentito in Italia, a parte sui vini liquorosi, mentre in alcune zone dell’ Europa del nord può essere utilizzato.

    Aggiunta di mosto muto o di filtrato dolce: ottenuti rispettivamente attraverso l’aggiunta di un’elevata quantità di anidride solforosa per bloccare la fermentazione e attraverso la centrifugazione e filtrazione di un mosto parzialmente fermentato con un contenuto zuccherino del 18-20%.

    Aumento dell’acidità

    L’aumento dell’acidità del mosto viene fatta attraverso l’addizione di acido tartarico. Il livello di acidità è molto importante perché, durante la fermentazione, gli acidi vengono trasformati e questo può causare una diminuzione della vivacità del colore e della percezione di freschezza gustativa. Inoltre l’ acidità protegge il mosto da malattie batteriche e fungine.

    Diminuzione dell’acidità

    Questa attività è molto rara e viene eseguita addizionando sali come il carbonato di calcio, tartrato neutro e il bicarbonato di potassio. Questa pratica è auspicabile per mosti ottenuti da uve prodotte in annate fredde e quindi che non hanno raggiunto un perfetto stato di maturazione.

    Osmosi e osmosi inversa

    Questi metodi, molto costosi, vengono applicati per apportare delle diminuzioni o degli aumenti delle sostanze (zuccheri e acidi) senza alterare le caratteristiche sensoriali del mosto. Il principio su cui si basano è l’utilizzo di una membrana semitrasparente che ha la proprietà di far passare, nel caso dell’osmosi, una parte di liquido meno concentrato verso il liquido più concentrato e nel caso dell’osmosi inversa una parte di liquido con concentrazione maggiore verso il liquido con una concentrazione minore. Nel primo caso si ottengono mosti meno concentrati e nel secondo caso mosti più concentrati.

    Concentratori con evaporatore a freddo sottovuoto spinto

    Questo metodo è andato diffondendosi negli ultimi anni grazie alla qualità del prodotto finale con un notevole aumento delle sostanze estrattive. Inoltre l’apparecchiatura utilizzata ha un ingombro minimo ed è molto facile da utilizzare. La modalità di lavorazione consiste nel privare il mosto della parte solida e inviarlo in un piccolo serbatoio, all’interno del quale si crea una depressione spinta che fa evaporare l’acqua pura ad una temperatura tra i 22 e 24 °C.

    Trattamenti del mosto

    Il mosto prima di passare alle fasi di vinificazione viene sottoposto a diversi trattamenti che hanno lo scopo di favorire la fermentazione, di esaltare le sue caratteristiche e di evitare effetti sgradevoli dovuti a batteri o muffe. Di seguito analizzeremo i diversi trattamenti:

    Illimpidimento

    viene fatta attraverso sostanze chiarificanti come la gelatina o bentonite, la caseina o il gel di silice e successivamente con centrifugazioni o delicate filtrazioni. Queste attività permettono la chiarificazione del mosto, favorita anche dal raffreddamento che permette alle parti solide di precipitare sul fondo dei serbatoi. La refrigerazione viene ottenuta con dei serbatoi coibentati, a doppia parete, all’interno delle quali circola una soluzione refrigerante.

    Decantazione

    un trattamento che viene eseguito per illimpidire il mosto senza l’ausilio di chiarificanti. Il trattamento viene fatto facendo raffreddare il mosto a temperature da 6 a 10 °C per diminuire la solubilità delle particelle solide e favorire quindi la precipitazione. Questo trattamento può essere fatto utilizzando enzimi pectolitici che permettono una precipitazione più mirata sempre senza l’ausilio di sostanze chiarificanti che possono alterare le caratteristiche sensoriali del mosto.

    Aggiunta di anidride solforosa

    è il trattamento maggiormente utilizzato e consiste nell’addizionare il mosto di metabisolfito di potassio. La quantità di anidride solforosa che viene impiegata dipende dalla carica batterica e dagli effetti che si vogliono ottenere; essa, grazie alle proprietà antiossidanti, limita i danni causati dall’ossigeno e dagli enzimi ossidativi riducendo i fenomeni di imbrunimento; favorisce la chiarificazione; inibisce lo sviluppo dei batteri e dei lieviti selvaggi favorendo quelli ellittici e selezionati e favorisce la solubilizzazione delle sostanze polifenoliche presenti nella buccia.

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    Tipi di mosto

    Il mosto può essere sottoposto ad ulteriori trattamenti che danno luogo a vari prodotti utilizzati nel settore vinicolo.

    Mosto di uve parzialmente fermentato

    Si ottiene per parziale fermentazione di mosto di uva e avente TAV effettiva superiore a 1% in volume e inferiore ai tre quinti del suo TAV totale (quello che raggiunto a totale trasformazione degli zuccheri in alcol).

    Mosto di uve concentrato

    Il mosto di uve concentrato si ottiene per disidratazione parziale con mezzi fisici escluso il fuoco diretto (che produrrebbe la caramellizzazione degli zuccheri) in modo che il valore indicato dal rifrattometro, alla temperatura di 20 °C, non sia inferiore al 50.9%. I mezzi più usati per ridurre la percentuale di acqua e ottenere la concentrazione sono l’evaporazione sotto vuoto, la refrigerazione con la successiva asportazione dell’acqua sotto forma di ghiaccio. Il mosto di uve impiegato deve avere un TAV naturale minimo fissato per la zona viticola di raccolta e appartenere a specifiche cultivar. Il suo TAV effettivo deve essere pari o superiore a 1% vol.

    Mosto di uve concentrato rettificato (ZUI)

    Il mosto di uve concentrato rettificato (ZUI) è il prodotto liquido non caramellizzato ottenuto mediante disidratazione parziale del mosto di uve. Effettuata con qualsiasi metodo autorizzato, escluso il fuoco diretto, in modo che il valore indicato dal rifrattometro, alla temperatura di 20 °C, utilizzato secondo un metodo da stabilirsi, non sia inferiore a 61,7 %. Il mosto concentrato rettificato è da considerarsi un prodotto privato di tutte quelle sostanze naturali, diverse dallo zucchero e dall’acqua, che potrebbero apportare modifiche organolettiche al mosto a cui viene addizionato. Il suo impiego permette di non sottoporre sia mosto sia il vino ad ulteriori procedure di correzione garantendo vini di una certa qualità.

    Mosto muto

    Il mosto muto è un mosto a cui è stata aggiunta anidride solforosa allo scopo di bloccarne la fermentazione. Viene detto “muto” proprio per l’assenza del gorgoglio tipico del processo fermentativo.

    Mosto cotto

    Mosto parzialmente caramellato ottenuto mediante eliminazione di acqua dal mosto o dal mosto muto utilizzando il riscaldamento diretto alla normale pressione atmosferica. La concentrazione zuccherina risultante è soggetta a misura con densimetro Babo o Baumé, ovvero tarato su di una ben precisa temperatura di lettura. Se la temperatura di lettura si discosta da quella di taratura occorre inserire un coefficiente di correzione.
    Filtrato dolce. Mosto parzialmente fermentato, la cui ulteriore fermentazione è stata ostacolata mediante filtrazione o centrifugazione, e con l’ausilio eventuale di altri trattamenti e pratiche consentiti.

    Mistella o sifone

    Prodotto ottenuto dal mosto di gradazione alcolica complessiva naturale non inferiore a 12°, reso non fermentabile mediante aggiunta di acquavite di vino o alcol in quantità tale da portare la gradazione alcolica svolta (quantità percentuale in volume di alcol effettivamente presente) tra 16% e 20% vol.

     + notizie da La Fillossera

  • Notizie bufala sul cibo

    Notizie bufala sul cibo

    Notizie bufala sul cibo.

     è un articolo di Coldiretti Giovani Impresa – giovanimpresa.coldiretti.it

     Con le notizie bufala sul cibo, vere e proprie fake news, paura a tavola per 3 italiani su 4.

    Tre italiani su quattro (pari al 66%) sono preoccupati dell’impatto di quello che mangiano sulla salute anche per effetto delle fake news sulle caratteristiche dei cibi che si moltiplicano in rete e spingono a comportamenti insensati e anche pericolosi.

    E’ quanto emerge dall’indagine Coldiretti/ixe’ presentata in occasione della campagna #stopfakeatavola promossa dalla Coldiretti e dall’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare nell’ambito del corso di formazione, organizzato in collaborazione con la Scuola Superiore della Magistratura.

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    Il web si configura sempre più come porto franco delle bufale sul cibo con un preoccupante effetto valanga in una situazione in cui, secondo l’indagine Coldiretti/Ixe’, il 53% degli italiani lo ha utilizzato almeno qualche volta durante l’anno per raccogliere informazioni sulla qualità dei prodotti alimentari.

    Ben il 25% degli italiani partecipa a community/blog/chat in internet centrate sul cibo, proprie o di altri, che influenzano le scelte di acquisto in modo non sempre corretto e veritiero. “La scorretta informazione nell’alimentare ha un peso più rilevante che negli altri settori perché va a influenzare direttamente la salute. Per questo dobbiamo prestare particolare attenzione ed essere grati a quanti sono impegnati nello smascherare gli inganni”, ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo. “Internet però non va criminalizzato perché può svolgere un ruolo di controllo importante in un sistema in cui – ha precisato Moncalvo – l’informazione alimentare purtroppo rischia di essere influenzata soprattutto dalle grandi multinazionali grazie alla disponibilità di risorse pubblicitarie investite.

    Per noi bufala sul cibo è anche la pubblicità delle aranciate che contengono appena il 12% di succo o quella dell’olio di oliva di grandi marchi che fanno immaginare paesaggi toscani mentre contiene quello importato dalla Tunisia o ancora il prosciutto nostrano che è fatto con maiali tedeschi senza alcuna informazione in etichetta per i consumatori”.

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    foto by bbc.co.uk

  • Mangia che ti fanno bene.. le fave

    Mangia che ti fanno bene.. le fave

    Mangia che ti fanno bene.. le fave.

    Articolo tratto da biodiversitapuglia.it di Antonella Berlen

    Mangia, che ti fa bene, sollecitava pazientemente la nonna, mentre piccina, davanti a una minestra di zucca e fave con la buccia.

    Facevo vagare con ostinata lentezza il mio cucchiaio per il fondo buio e denso del piatto, nell’impresa di allontanare tutti i pezzi di zucca dallo sgradito contatto con le fave dal nasello inquietante, e dai sospetti pezzi di aglio che lucevano, pallidi, sotto numerosi giri di olio.

    Quella minestra proprio non riuscivo a mandarla giù. E non mi era nemmeno chiaro come potesse farmi tutto quel bene di cui era convinta la nonna, che, sicuro, pensavo mentisse spudoratamente per convincermi a mangiarne.

    Quando ci penso mi rivedo, in un dipinto di contadini al desco, illuminata da una luce fioca, con gli occhi alla carta moschicida che pendeva dalla lampada, a cercare di contare quante mosche, volando volando, avvicinandosi alla luce, ne restassero imprigionate.

    E guardandole, a spingere cautamente il piatto verso il centro del tavolo, nella speranza che qualche fortunata, nel tentativo di staccarsi, perdesse un’ala e vi precipitasse dentro, salvandomi da quella minestra.

    Ma la carta moschicida era micidiale e quell’evento, mortificando le mie aspettative, non si verificava mai.

    E anche se fosse accaduto, ripensandoci, non sono proprio certa che la nonna avrebbe passato, al cane o alle galline, il pasto non gradito.

    La nonna avrebbe ripescato la povera mosca e il piatto sarebbe rimasto a tavola. Anche se in quel caso avrei potuto motivare il rifiuto di mangiarne e chiedere in sostituzione pane e formaggio…

    Ma come facevo a confessare che non riuscivo a riempire quel cucchiaio perché mi facevano paura le fave? E che era a causa di quelle loro labbra sottili e ricurve che mi rendevano vivo e ghignante il legume che mi guardava dal piatto, che non mi decidevo a portarlo alla bocca?

    Con gli occhi fissi sul piatto, mi limitavo a dirle: non mi piacciono!

    E la nonna, a rispondere: ma se non le hai ancora assaggiate.

    Ed io, a chiudere quel risicato scambio di parole: lo so e basta!

    A quel punto, la nonna, con un gran sospiro, si convinceva ad eliminare le fave, che erano quelle che mi facevano meglio di tutto, ed io, sgocciolandoli per bene dal fondo di cottura, recuperavo tutti i pezzi di zucca e li mangiavo.

    Sapevano di tegame di terracotta. Di olio e di aglio. E di fave.

    E non erano niente male, ma io, nonostante cominciassi segretamente a familiarizzare con quel sapore, seguitavo a mangiare con lentezza accompagnata da aria di grande costrizione, per dimostrare, nonostante la rimozione del legume, tutto lo sforzo che mi costava accontentarla.

    Così, piano piano, attraverso il sapore mediato e veicolato da quei pezzi di zucca, dopo aver contrattato l’eliminazione del nasello, ho imparato, crescendo, ad accettare il piatto completo e ad apprezzare quella solida e preziosa minestra.

    E ho capito, a distanza di tempo, che la nonna non mentiva incitandomi a mangiare quel piatto di fave e zucca e che il suo convinto e affettuoso, mangia che ti fa bene, a qualunque alimento si riferisse, aglio, zucca o fave con la buccia, tutti prodotti della sua campagna, era convinto, sincero e consapevole.

    La nonna curava amorevolmente i suoi campi mentre il nonno era in America e ci teneva particolarmente che mangiassi le fave perché, da brava contadina qual era, ne conosceva e apprezzava per esperienza, sia il sapore che tutte le proprietà benefiche.

    Erano facili da coltivare e facevano bene al terreno, potevano essere gustate fresche e verdoline in primavera, dopo averle tirate fuori dalla buccia, da sole o accompagnate da pane e formaggio di pecora, e secche in inverno, con la buccia o senza, in zuppe e minestre saporite, cotte sotto la cenere o fritte.

    La nonna non conosceva sicuramente termini quali azoto, sali minerali, acido folico, potassio, antiossidanti, steroli vegetali e fibre alimentari, né i nomi di tutti i minerali contenuti in quelle fave, e neanche da quanto tempo esistevano su questa terra e da dove arrivavano. Le bastava sapere che c’erano, ed erano ottime da cucinare e utili ad “andare di corpo” con regolarità, a mantenere bassa la pressione corporea e, ricche di ferro com’erano, a curare le anemie. Cosa si poteva volere di più da una fava?

    Ogni bravo contadino, all’epoca, aveva dentro di sé un navigato farmacista naturale, esperto non in cosa contenessero determinati cibi o erbe, ma per cosa fossero utili, a curare o a prevenire.

    E la nonna era una buona contadina.

    E il suo mangia, che ti fa bene, ci stava proprio tutto.

    Ma chissà cosa avrebbe pensato, se in un momento di fantasiosa premonizione infantile, con il piatto davanti, le avessi svelato che quelle fave avrebbero percorso tanta strada, e a 50 anni di distanza sarebbero arrivate in alto, ma molto più in alto di qualsiasi altro legume contemplato nelle favole.

    Perché una principessa coraggiosa e determinata avrebbe viaggiato tra stelle, pianeti e buchi neri, e all’interno di un castello volante costruito con fibre di acciaio delle più forti, si sarebbe mossa tranquilla e attenta nello spazio silenzioso, portandosi dietro fagioli, lenticchie, fave e ceci neri, a conferma delle sue sane abitudini alimentari e del fatto che, nelle favole, tra principesse e legumi c’è sempre stato un certo feeling.

    La nonna mi avrebbe ascoltata con la sua santa pazienza e pur non essendo in grado di cogliere l’opportunità scientifica di tale rivelazione, avrebbe approfittato dell’utilità immediata della mia fantasia, e sull’orlo dell’esasperazione avrebbe concluso: Hai visto?

    Se l’è portate perché fanno bene!

    Quindi, smettila di fare tutte queste mosse, e mangia!

    La nonna metteva a “bagno “, le fave, in abbondante acqua, la sera.

    Il mattino successivo le passava, dentro “u’ pignatidd”, che sistemava in un angolo del camino destinato alla cucina, con foglie di alloro, grani di pepe e acqua.

    Quindi tagliava dalla parte centrale di una grossa cipolla una fetta bella alta e la sistemava sulla bocca del tegame.

    Non mi sono mai chiesta se lo facesse per sostituire un coperchio andato in pezzi, oppure per approfittare del vapore e cuocere anche la cipolla, che poi mangiava a parte, condita con olio e sale.

    Ogni tanto andava a controllare la cottura e, aggiungeva, se necessario, altra acqua calda, che teneva di riserva, in un pentolino. Poco prima che arrivassero a cottura regolava di sale.

    Nel frattempo cuoceva la zucca, tagliata a pezzi non troppo piccoli, e la teneva da parte, in un piatto coperto da un altro piatto, sotto un telo.

    Pronte le fave, le tirava fuori dall’acqua e le aggiungeva alla zucca, aggiustava di sale, se necessario, e completava il tutto con uno spicchio d’aglio a piccoli pezzi e un generoso giro d’olio di oliva.

    immagini by biodiversitapuglia.it

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  • La mineralità del vino è una metafora

    La mineralità del vino è una metafora

    La mineralità del vino è una metafora.

    Articolo tratto da vinopigro.it di Elisabetta Tosi

    Sono tempi interessanti, questi, per un filosofo…

    C’è chi ha bandito il termine dal suo vocabolario di descrittori del vino, chi invece continua ad usarlo, nella convinzione di venir comunque capito da tutti,  e c’è chi non si rassegna alla fumosità del concetto e insiste a ricercarne una spiegazione in qualcos’altro. Sì, parliamo di mineralità del vino, quella strana cosa che sfugge alle canoniche classificazioni di profumi-gusti fruttati/speziati/floreali/terziari eccetera. In breve: quando il vino ci ricorda qualcosa, ma non sappiamo dire con precisione che cosa, scartate tutte le consuete descrizioni, alla fine, di solito, lo si definisce minerale .Per questo, personalmente, non sono così ostile alla parola: in mancanza di meglio, è solo un modo (vago, generico) di chiamare qualcosa che non è né fruttato, né speziato, eccetera).

    Non sono solo i comuni mortali e gli addetti ai lavori ad essere incuriositi da questo odore/sapore; anche i Master of Wine lo sono, al punto da tenere un’apposita sessione di studio in proposito e di cui riferiscono nei dettagli le Scimmiette del Vino.

    In breve:

    • I minerali presenti nelle rocce dei suoli su cui crescono vigne non si trasmettono alle piante. Nè ai loro grappoli. E tantomeno al vino finale. I minerali che servono alla sua sopravvivenza la vite li trae dal suolo, anzi dall’humus;
    • Come qualcuno ha già ipotizzato, i minerali in se’ e per se’ non sanno di niente. La selce non ha odore, nè sapore. Ciò che noi etichettiamo come “odore di selce” in realtà potrebbe essere il frutto di un’azione meccanica (lo sfregamento, per dire) che libera nell’aria particelle di zolfo e ferro, che un po’ di odore in effetti ce l’hanno.
    • Conclusione: boh? “Qualunque cosa sia la mineralità del vino, non è il gusto dei minerali presenti nella vigna”

    Come se ciò non bastasse, quando si parla di mineralità del vino l’accordo, in realtà, è solo apparente. Per gli enologi significa tutto e niente – alcuni di loro, intervistati nel corso di una ricerca, sono arrivati a presentare 17 gruppi di termini, che andavano dal floreale alla polvere da sparo – e i consumatori finali ne hanno un concetto ancor più vago. Alla fine, si è concluso che la mineralità è un concetto che esiste (in quanto viene usato), ma che non gode di una definzione precisa e univoca, perchè i termini usati per descriverla sono troppi e spesso contraddittori.

    A questo punto, non c’era altro da fare che mettere in campo l’illuminata conoscenza di un gruppo di Maestri del Vino, ai quali sono stati sottoposti in degustazione cieca 15 vini bianchi, tutti – nell’immaginario collettivo – definibili come “minerali”. Complice – presumiamo – la diversa sensibilità dei partecipanti a quella caratteristica, alla fine nemmeno i MW hanno dato prova di unanime consenso. Dire che un vino è minerale non significa granchè, hanno convenuto alla fine.

    Morale? Non è chiaro a che cosa si possa attribuire ciò che noi chiamiamo “mineralità” di un vino, e non è chiaro nemmeno cosa s’intenda, alla fine, per mineralità.

    Forse è una metafora (dei nostri tempi confusi). Oppure, come ha insinuato qualcuno, è solo un modo (l’ennesimo) per confondere le idee ai poveri, ignari consumatori…

    P.s: forse la miglior definizione di mineralità l’ha data la scienziata del suolo Lydia Bourguignon: “la mineralità è la percezione che ha il palato delle rocce del suolo”, anche se così dicendo s’introduce un nuovo, ulteriore elemento di discussione: il concetto di percezione…

    Sì, sono tempi interessanti, per un filosofo.

    (nella foto, un #crurock di calcare bianco da un cru della Valpolicella)

    Immagini by vinopigro.it

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  • Il Mirto: la pianta dell’amore eterno

    Il Mirto: la pianta dell’amore eterno

    Il Mirto: la pianta dell’amore eterno.

    articolo letto su lastregadelsud.wordpress.com scritto da Valentina Lisci Spina

    Mai come quest’anno ho assistito ad accese dispute sui tempi di raccolta di frutti, erbe, fiori, bacche e funghi. Appena passato il periodo delle olive, tra un “sono troppo verdi” e un “sono troppo nere” per essere raccolte, è stata la volta del mirto.

    E anche io, modestamente, ho subito la mia dose di rimproveri per averlo raccolto, udite udite, prima del sei dicembre. La festa di San Nicola, secondo i vecchietti locali, apre le danze alla raccolta del mirto. Non so perché (ma se qualcuno lo sa, sarò lieta di scoprirlo).

    Con i cambiamenti climatici a cui assistiamo, la raccolta dei frutti della natura non è più regolata da date più o meno stabili. Le bacche erano così viola e succose che le ho raccolte, senza tante cerimonie, se non quella di ringraziare le vecchie enormi piante che me le hanno offerte. L’unica indicazione che seguo per la raccolta delle bacche (non solo di mirto) è quella del buonsenso: non troppo crude, non troppo mature.

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    Questo arbusto cresce rigoglioso nella macchia mediterranea, fiorisce in tarda primavera e spesso rifiorisce in estate. I fiori dal profumo inebriante venivano usati nella preparazione dell’ “acqua degli angeli”. Le bacche compaiono alla fine dell’autunno, possono essere raccolte da fine novembre a fine gennaio, e vengono lavorate subito, addirittura in giornata, per non perdere profumi e proprietà.

    Il mirto, “sa murta”, è conosciuto per l’ottimo liquore che se ne ricava, un digestivo immancabile in Sardegna.

    In cucina diventa un’incredibile spezia, in aggiunta a tantissimi piatti.

    L’ultima tendenza è aggiungerlo al gelato (a me piace!).

    Se volete ricavarne una composta, mi raccomando, non fate come me, abbiate cura di non schiacciare eccessivamente le bacche altrimenti il risultato sarà così astringente da risucchiarvi la bocca! L’azione dei tannini, responsabili appunto del sapore astringente, si attenua con il passare del tempo: per avere un sapore più morbido meglio aspettare qualche mese prima di consumare sia la composta che il liquore.

    In fitocosmesi, l’olio essenziale viene impiegato nelle creme, saponi, shampoo e bagnoschiuma, perché grazie alle sue proprietà antinfiammatorie, balsamiche e astringenti, purifica e tonifica la pelle.

    In alcune zone di Italia si usa mettere alcuni rametti di mirto nel bouquet della sposa, perché è considerato simbolo di amore eterno. Già Plinio lo definiva “myrtus coniugalis”, e non è un caso che la pianta del mirto sia consacrata a Venere, Dea dell’amore.

    mirto-valentina-lisci-mhyrtle-1

    Insomma il mirto tiene uniti e fa innamorare…soprattutto chi lo scopre per la prima volta!

    Buona raccolta e prudente degustazione!

    Valentina

    foto by lorenzovinci.ilgiornale.it e idrotermevillasor.it

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